Le proteste nei campus statunitensi sfidano la narrazione pro-Israele

L’ondata di proteste nei campus contro il sostegno degli Stati Uniti all’assalto israeliano contro la popolazione di Gaza è iniziata con l’occupazione dell’edificio amministrativo della Brown University l’8 novembre 2023.  Tra le richieste degli studenti c’era la pubblicazione dei rapporti finanziari dell’università con il governo e l’establishment militare israeliano e l’investimento dei fondi universitari in aziende collegate al complesso militare-industriale statunitense (MIC).

Mentre il bilancio delle vittime a Gaza cresceva, la protesta alla Brown University rimaneva isolata. Ma il 17 aprile, sei mesi dopo l’invasione di Gaza, i campus sono esplosi in più di 140 città statunitensi. Oltre al cessate il fuoco, la fine dell’occupazione della Palestina da parte di Israele e la fine del sostegno statunitense agli attacchi, il disinvestimento dalla macchina da guerra è diventata una richiesta centrale per molte delle proteste.

Gli studenti sono stati presto sostenuti dagli insegnanti, che hanno espresso sgomento e rabbia per il massacro di civili e per il rifiuto degli Stati Uniti di tagliare gli aiuti ad Israele. La protesta si è accentuata quando la Camera dei Rappresentanti ha approvato a stragrande maggioranza il pacchetto di aiuti militari supplementari all’estero da 95 miliardi di dollari, 25 dei quali destinati a Israele.

La politica ha reagito alla protesta con due risposte ostili: calunniando i manifestanti come “filo-Hamas” e “antisemiti” e la decisione di chiedere alle forze dell’ordine di sgomberare gli accampamenti. Il 30 aprile, la polizia è intervenuta alla Columbia University, mentre una folla di provocatori con bandiere israeliane ha attaccato l’accampamento della University of California Los Angeles (UCLA), mentre la polizia è rimasta in attesa per tre ore, senza fare nulla per proteggere i dimostranti.

Mentre gli amministratori ricorrevano all’uso della forza e delle minacce di espulsione, cresceva nel paese la simpatia per i manifestanti e per la causa della giustizia per i palestinesi. La narrazione secondo cui l’aggressione israeliana sarebbe giustificata dalla brutalità dell’attacco di Hamas del 7 ottobre è stata erosa dalle immagini di flussi di palestinesi indifesi e affamati, che cercavano riparo e cibo mentre venivano colpiti e bombardati, e dall’ipocrisia dei funzionari di Biden che imploravano un trattamento più “umanitario” mentre inondavano il governo israeliano di armi e soldi.

Ma l’altro fattore che ha inasprito il giro di vite è che la richiesta di disinvestimento dei fondi dalla macchina da guerra stava prendendo piede. Le università con enormi fondi di dotazione si sono rifiutate di dire dove vengono investiti questi denari, per paura di rivelare che erano stati incorporati nella macchina da guerra. Una macchina da guerra che si è espansa fino a incorporare gli atenei, così che il “MIC” è diventato quello che l’attivista per la pace Ray McGovern chiama il MICIMATT, ovvero il Complesso Militare-Industriale-Congressuale-Intelligence-Media-Accademico-Think Tank. Nel MICIMATT, gli atenei veicolano i fondi ricevuti da e verso aziende “tecnologiche” come Google, Amazon, Cisco come pure tradizionali appaltatori militari come Boeing.

Alla Columbia, ad esempio, la rettrice dell’università, Manouche Shafek, che ha chiamato la polizia, è un’interfaccia ambulante con la macchina da guerra imperiale britannica. Baronessa, con un seggio alla Camera dei Lord, è stata in passato vicepresidente della Banca Mondiale, vicedirettrice generale del FMI e direttrice della London School of Economics, un’istituzione chiave nella tradizione imperiale della City di Londra. Nel Consiglio di amministrazione figura Jeh Johnson, che ha servito l’amministrazione Obama come consulente del Dipartimento della Difesa e poi Segretario alla Sicurezza interna, oltre a far parte del Consiglio di amministrazione dell’appaltatore militare Lockheed Martin.

Anche gli studenti di altri campus chiedono trasparenza e disinvestimento. Concentrando l’attenzione sull’interfaccia tra l'”istruzione superiore” e l’establishment della sicurezza militare, emergono legami che fanno delle istituzioni accademiche potenziali o attivi complici di crimini di guerra.